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Guerrieri suicidi

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Nella lingua giapponese il termine kamikaze significa Vento Divino, un rimando al leggendario tifone
che si dice abbia salvato il Sacro Arcipelago dall’invasione mongola del 1281. Durante la Seconda guerra mondiale indicò in senso metaforico le formazioni suicide del tokkōtai (Corpo Speciale d’Attacco), ideate dall’ammiraglio Takijirō Ōnishi per attaccare la flotta americana nel Pacifico con missioni senza ritorno.
Dopo l’11 settembre il termine è tornato in auge per definire i contorni delle moderne forme di attacco suicida, specie quelle legate al terrorismo di matrice islamica.
Il volume ritrae le specificità, le inclinazioni politico-religiose e le varie tecniche adottate dalle principali formazioni di guerrieri suicidi che si sono succedute nel tempo.

Quando arriva il giorno, il martire, alle cinque del mattino, recita il salat al jinaza, la preghiera dei morti. Al sorgere del sole inizia la declamazione del salat al fagr, la preghiera dell’alba. Dopo le abluzioni rituali, mette gli abiti puliti, visita la moschea dove recita “le antiche preghiere delle armate musulmane prima della battaglia”; mette un Corano nella tasca posta sul cuore; indossa il corpetto esplosivo.
Il suo tutore lo saluta con l’espressione “Allah sia con te e ti conceda il successo affinché tu possa guadagnare il paradiso”, mentre il martire risponde “Se Allah lo desidera, ci vedremo in paradiso”.

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