I cavalieri del Dai Nippon

I cavalieri del Dai Nippon sono i piloti suicidi kamikaze, le torpedini umane kaiten, gli sbandati zanryusha che si rifiutarono di credere alla sconfitta bellica e continuarono a combattere nella giungla, i giovani colonnelli che tentarono di impedire all’Imperatore l’annuncio della resa, i mistici dell’harakiri e perfino i condannati del processo di Tokyo.

La loro storia, vissuta secondo le norme dell’antico codice d’onore Bushido e illuminata dagli ideali in cui credevano, giusti o sbagliati che fossero, oggi sembra più una tragedia. Invece è una poesia. Una di quelle canzoni di gesta, lontanissime e inverosimili, che rappresentano la stagione mitologica di un popolo. I giapponesi all’inizio del Novecento erano ancora un popolo mitologico: pericoloso perché incendiava l’oceano, ma nobile perché sapeva morire nel suo rogo. Quella terra di dèi che fu il Giappone e quei semidèi che furono i samurai, rivivono in questo libro in un episodio, un’impresa, un commiato, un brano di diario, una lettera, un epigramma consegnato al commilitone prima dell’ultimo volo o al boia prima della penultima dipartita: perché le anime dei guerrieri leali e coraggiosi tornano sempre a Yasukuni, il santuario degli eroi.

Il giapponese è sempre teso a realizzare qualcosa, grande per sé e utile per la società alla quale appartiene. Anche questo sentimento è un prodotto della mentalità feudale e trova religiosamente la sua più alta espressione nella “delega” concessa dalla Dea del Sole al popolo giapponese, incaricato di propagare nel mondo la “Via della Giustizia”.

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270
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